RACCONTO BREVE(Storia verosimile di un cammino di formazione)
(Disegno di casa colonica con immagine della protagonista)
Quell’estate del 1752 segnò una vera e propria svolta nella mia vita e ciò che avvenne dopo fu determinato da una lunga serie di accadimenti su cui, da adulta, ho avuto modo di riflettere lungamente e che ancora non so se furono frutto di una serie di coincidenze o il risultato di un disegno provvidenziale.
Un caldo torrido che durava da oltre due mesi aveva bruciato la campagna e reso aridi i terreni ricoperti di stoppie che circondavano la casa colonica dove vivevamo in dodici: i nonni paterni, i miei genitori con cinque figli maschi, tre figlie compresa me, che con i miei dodici anni ero la maggiore tra le femmine. Anche la primavera era stata siccitosa e il raccolto del grano più magro del solito: mio padre, insolitamente nervoso, mostrava tutta la sua preoccupazione a mia madre perché ci aspettavano giorni difficili con tante bocche da sfamare nei lunghi mesi autunnali ed invernali e una dispensa sempre più vuota.
Il padrone del podere, nonostante la scarsità del raccolto aveva preteso ugualmente la sua metà come prevedeva il contratto mezzadrile e non si era fatto impietosire dalle suppliche della mamma che lo aveva implorato di lasciare a credito un quintale di grano da restituire l’anno successivo nella speranza di un raccolto più abbondante.
Il signor Gallo era un marchese di antico casato e viveva con la sua nobile famiglia in paese, ad Amandola, in un palazzo seicentesco dove ero entrata una sola volta, l’anno precedente, quando mio padre mi aveva portato con sé in occasione di una delle sue periodiche visite dedicate alle regalie che per antica consuetudine venivano elargite ai padroni: polli, uova, anatre, noci, castagne, pomodori, fave, patate e tutte quelle provviste che, a seconda della stagione, andavano donate a chi ci dava da vivere. L’abitazione dei Gallo mi era sembrata una vera e propria reggia con saloni immensi dai soffitti affrescati, dai pavimenti lucidissimi, tutti arredati con mobili di gran pregio: rimasi sbalordita anche nel vedere tutta quella servitù che si prodigava da una stanza all’altra ad ogni cenno del capo dell’ anziano signore dall’atteggiamento autoritario che intuii subito dovesse essere il padrone del palazzo, del nostro podere e di molti altri appezzamenti sparsi nel circondario.
Al momento di congedarci, la Signora Gallo si intrattenne in disparte con mio padre per qualche minuto e dal fatto che ogni tanto mi guardavano capii che stavano parlando di me. Ne ebbi la conferma poco dopo quando, lungo il cammino verso casa, il babbo mi disse che la Signora aveva bisogno di una ragazzina sveglia che servisse a tavola i pasti per la nobile famiglia dei Gallo e gli aveva chiesto se fossi stata disposta a prendere subito servizio promettendo in cambio il mio mantenimento e dieci baiocchi in rame da riportare a casa nei periodi delle festività natalizie e pasquali.
All’inizio l’idea di allontanarmi da casa per vivere in una famiglia sconosciuta, mi fece paura, poi i modi gentili mostrati dalla Signora nei miei confronti e l’idea di rendermi utile ai miei, mi convinsero ad accettare. Il giorno dopo, portando con me un fagottino con i miei poveri indumenti, tornai al palazzo Gallo sempre accompagnata da mio padre che mi lasciò con la promessa che lui e la mamma sarebbero tornati presto per sapere se mi fossi trovata bene in quella nuova famiglia.
I primi giorni furono particolarmente difficili e avevo grande nostalgia di mamma e papà, dei miei fratellini e delle mie sorelline, mi mancavano la libertà della campagna con i suoi odori e le corse con il mio bastardino Tommy che mi veniva dietro abbaiando; non ero abituata a servire a tavola rispettando le regole del galateo nobiliare e spesso venivo rimproverata per questo e anche perché ero troppo lenta nell’eseguire gli ordini dei padroni.
Ero una ragazzina sveglia, col passare del tempo cominciai ad acquisire maggiore sicurezza ed iniziai anche ad essere apprezzata dalla Signora Gallo, una donna burbera ma che in certi momenti lasciava trasparire una certa simpatia nei miei confronti tanto che mi cominciò ad affidare anche servizi più importanti e delicati come quello di accompagnarla nella passeggiata pomeridiana nella piazza di Amandola tenendo a guinzaglio il suo barboncino nano con cui avevo familiarizzato e che mi seguiva ovunque mi dirigessi.
Agli inizi di ottobre, dopo quasi due mesi di permanenza a casa dei Signori Gallo, con mia grande sorpresa, la Signora, dicendomi che ero una ragazzina intelligente ed educata, mi propose di andare al sevizio di una nobile famiglia di Ascoli che aveva necessità di una cameriera per le ore serali, avendo spesso a cena ospiti di riguardo dell’alta società ascolana; i Fumagalli, così si chiamava questa famiglia, avrebbero provveduto alla mia istruzione presso il collegio delle Pie Operaie dell’Immacolata Concezione, la prima scuola fondata in Ascoli con il fine principale dell’insegnamento alle fanciulle “di ogni condizione ma povere nella maggior parte”. Avevo sempre desiderato imparare a leggere e scrivere ma mi era apparso come un sogno irrealizzabile, date le ristrettezze economiche in cui versava la mia famiglia. Il desiderio di apprendere fu più forte del dispiacere per il distacco dai miei; sapevo infatti che sarei tornata a casa soltanto dopo molti mesi e per pochi giorni, data la distanza e gli impegni di lavoro presso la nuova famiglia di destinazione.
(Disegno della carrozza che parte da Piazza Risorgimento)
Ricordo come fosse ieri, il momento in cui salii sulla carrozza che mi portava ad Ascoli: avrei desiderato ritornare indietro nella mia decisione e rinunciare alla scuola e al lavoro pur di non abbandonare i luoghi a me così cari dove avevo trascorso la mia infanzia. La tristezza della partenza mi abbandonò poco dopo quando due anziani coniugi, miei compagni di viaggio mi cominciarono a raccontare le bellezze di Ascoli, del teatro, delle sue piazze e delle sue torri; i due nobili ascolani mi raccontarono dei mesi estivi trascorsi nel loro palazzo in Amandola e mi dissero che ora stavano tornando in città per riprendere la loro vita abituale.
La nuova famiglia che mi ospitava e presso la quale prestavo servizio come cameriera, si mostrò subito affabile nei miei confronti e mi prese a benvolere come fossi una figlia forse perché la loro unica figlia, di dieci anni, era morta di tisi qualche anno prima. Già dopo una settimana mi ero ambientata benissimo e il primo di novembre, il Signor Fumagalli mi accompagnò all’istituto delle Pie Operaie dell’Immacolata Concezione, una scuola nata otto anni prima per opera del sacerdote Antonio Marcucci e che, a detta della famiglia che mi ospitava, rappresentava una novità per quei tempi dato che le autorità pubbliche non si curavano affatto dell’istruzione femminile e l’istruzione era esclusiva delle classi nobiliari ed era riservata soprattutto agli uomini; i Fumagalli mi dissero anche che ero fortunata perché l’istituto delle Pie Operaie accoglieva giovani di ogni ceto sociale anche se poi, secondo il costume del tempo, le giovani nobili venivano tenute rigidamente separate dalle altre.
In classe mi ritrovai con altre undici compagne, un numero limitato perché, a detta della Madre Superiora, un numero eccessivo avrebbe creato confusione e impedito un insegnamento efficace che arrivasse individualmente a ciascuna di noi. La giornata scolastica era organizzata in sette ore giornaliere: la mattina, dopo la recita dell’orazione, una suora giovane ma molto preparata, ci insegnava la lettura poi venivano fatti dei lavori di ricamo e, sul tardi, si meditavano le Sacre Scritture; una buona merenda spezzava la mattinata mentre il pomeriggio si apriva con un po’ di preghiera a cui facevano seguito dei lavori manuali quali la filatura. La giornata si chiudeva con la recita delle “Litanie di nostra Signora”
La sera, soddisfatta per i miei progressi nella lettura e nella scrittura, tornavo al mio lavoro di cameriera presso la famiglia che mi ospitava e che mi aveva accolto amorevolmente.
La vita nell’istituto trascorreva serena e ricordo con piacere l’affabilità, la grazia e la competenza con cui Suor Lucia la giovane suora incaricata dell’alfabetizzazione di base e della catechesi, ci impartiva i suoi insegnamenti facendosi amare da tutte noi.
Ricordo anche l’emozione che ci prese tutte quando la Madre Superiora ci annunciò la visita di Don Marcucci, il fondatore dell’istituto e l’autore del testo di catechismo su cui studiavamo. Mi impressionarono la sua grande umanità, la sua cultura e le sue doti di predicatore dal linguaggio chiaro ed efficace. Soprattutto mi rimase scolpita nel cuore una frase che il sacerdote pronunciò in quell’occasione: “la persona umana è come una stella che viene dal cielo e al cielo è destinata a tornare”. Compresi che quell’uomo dall’aspetto così fragile e dallo sguardo mite, era dotato di una grande forza interiore tanto da andare controcorrente proponendo un progetto educativo per le ragazze povere in un’epoca contraddistinta da un grande risveglio culturale ma che continuava a relegare la donna a ruoli marginali. Nel secolo dei “lumi” era ancora molto radicata la convinzione che “le donne di umile stato non fa bisogno che sappiano neanche leggere”, come diceva Silvio Antoniano, un illustre pedagogo del secolo XVI e, in un contesto del genere, l’iniziativa di Don Marcucci, mi era sembrata veramente rivoluzionaria.
(Disegno di Don Marcucci che parla alle scolare e alle suore)
L’anno scolastico e lavorativo trascorse molto rapidamente anche perché a Natale e a Pasqua, grazie alla generosità della famiglia Fumagalli, ebbi la possibilità di tornare in Amandola dai miei approfittando dell’interruzione della scuola. Ad ottobre la scuola chiuse per un mese che trascorsi a casa riassaporando i sapori mai dimenticati della campagna e le attenzioni della mia famiglia che in alcuni momenti della mia permanenza in Ascoli mi era tanto mancata. Erano i giorni della vendemmia e mi attivai per rendermi utile nel trasportare i cesti ricolmi di grappoli verso il carro trainato dai buoi; la sera della pigiatura ci fu grande allegria con mio padre e gli zii che, a piedi nudi, pigiavano i grappoli nel grande tino della nostra cantina e noi, tutti intorno ad ammirare il mosto che usciva abbondante nel paiuolo di rame.
A novembre ripresero le lezioni in collegio, ritrovai con gioia le mie compagne, alcune quasi non le riconoscevo, sembravano già delle piccole donne. Ritrovai l’affetto dei Signori Fumagalli che mi accolsero a braccia aperte come una loro figlia.
Trascorsero così altri quattro anni e mi ritrovai diciassettenne: nei quattro anni presso la Scuola Pia delle Concezioniste avevo acquisito una buona preparazione culturale e religiosa; ripensando alla situazione di difficoltà in cui si trovavano le giovani di Amandola che non avevano avuto la fortuna di poter imparare a leggere e scrivere, confidai alla Madre Superiora il desiderio di fondare anche nel mio paese, una scuola per le giovani indigenti. La suora elogiò il mio progetto ma mi fece capire le difficoltà di ordine economico alle quali sarei andata incontro e che non avrei potuto superare senza l’aiuto di qualche persona facoltosa. Proprio in quei giorni la famiglia Fumagalli, a cui avevo confidato il mio desiderio, mi mise a disposizione un’ala del palazzo signorile di Amandola in cui trascorreva i mesi estivi e mi promise che avrebbe sostenuto anche economicamente la mia iniziativa. Il primo di novembre del 1957 si apriva in Amandola la Scuola “Don Antonio Marcucci” in onore di colui che mi aveva dato l’opportunità di intraprendere un cammino di formazione cristiana e di crescita culturale.
( Disegno di palazzo signorile ad Amandola con la scritta sul portone Istituto Don Marcucci)
Nessun commento:
Posta un commento